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Il confino politico

Il confino politico costituì una delle più articolate e complesse attività repressive e, con il Tribunale Speciale, una delle misure principali con cui Mussolini perseguitò ogni forma di dissenso, sia quello organizzato dai partiti politici, che quello cosiddetto “spontaneo”.

L’idea di una misura di relegamento coatto contro gli oppositori, venne introdotta per la prima volta nel 1863 e successivamente nel 1889 fu istituito l’antesignano del confino politico fascista: il domicilio coatto. Tale misura fu, successivamente, ampliata dal fascismo con la Legge di pubblica sicurezza del 6 novembre 1926 che istituiva formalmente il confino di polizia e ulteriormente disciplinato nel 1931, con la promulgazione del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. In esso era previsto, tra l’altro, che “Possono essere assegnati al confino di polizia, coloro che svolgono o abbiano manifestato il proposito di svolgere un’attività rivolta a sovvertire violentemente gli ordinamenti politici, economici o sociali costituiti nello Stato o a contrastare o a ostacolare l’azione dei poteri dello Stato”.

A decidere questa misura punitiva, di tipo amministrativo e con carattere preventivo, era una Commissione provinciale per l’ammonizione e il confino, composta da esponenti istituzionali e fascisti, che indicava anche la sede di assegnazione, scegliendo tra le 262 colonie a disposizione. La pena inflitta variava da 1 a 5 anni, sempre prorogabili. Si distinguevano, inoltre, due generi di confino: quello comune, per i reati non di matrice politica; e quello politico, cui erano destinatari gli oppositori del fascismo.

Le località del confino politico furono le isole minori italiane – come ad esempio Ventotene, Ponza, Ustica, Lipari, Tremiti e Lampedusa – e l’entroterra, soprattutto dell’Italia meridionale e centrale. Le esperienze di confino politico nell’entroterra si caratterizzarono per la solitudine dei perseguitati (nella stessa località non erano inviate più di 2-3 persone alla volta), la fame e le malattie, ma anche per una minore vigilanza da parte delle autorità fasciste. Il confinamento nelle isole minori italiane, invece, si distinse per il prevalere di una vita in comunità – con cameroni in cui dormire o, più raramente case private – e per una sorveglianza costante, accompagnata soventemente da persecuzione di gruppo o personale, condanne di reclusione in carcere e maltrattamenti di ogni tipo, anche fisici.

Il confino politico subì nel corso degli anni del regime alcuni importanti sviluppi, che ne modificarono in parte l’assetto istituzionale originario: obbligo del lavoro per i confinati; introduzione del rispetto di alcuni orari per l’uscita e il rientro; divieto di frequentazione degli esercizi pubblici o dei luoghi di ritrovo etc.

Le principali vittime del confino politico furono: esponenti di partiti e movimenti politici (comunisti, socialisti, giellisti, anarchici, repubblicani, etc.); semplici oppositori al regime che venivano classificati come antifascisti; oppositori politici dei territori coloniali e, in particolare, libici, soprattutto dopo l’introduzione della legislazione razziale nel 1938; omosessuali, accusati di “attentato alla dignità della razza”.

Per finire al confino bastava veramente poco: partecipare al funerale di un amico comunista, deporre fiori sulla tomba di un antifascista, raccontare barzellette sul fascismo o sul duce, leggere libri ritenuti sovversivi, cantare inni considerati rivoluzionari (anche in abitazioni private), festeggiare il primo maggio etc.

Dal 1927 al 1943 la misura del confino politico fu inflitta a 12.330 oppositori politici, 177 dei quali morirono durante il periodo di isolamento. Gli anni di confino inflitti superarono abbondantemente e complessivamente i 50.000.

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