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L'Antifascismo

L’Antifascismo nacque come reazione, morale e politica, alla dottrina e alla prassi del fascismo, già al suo apparire nel 1919 e proseguì poi per tutto il Ventennio.

Fino alla Marcia su Roma e poi nei primi mesi di instaurazione del regime, l’Antifascismo, godendo di tribuna parlamentare e di una certa libertà di stampa, attuò una’opposizione al fascismo di tipo politico tradizionale.

A seguito del delitto Matteotti del 1924, con la promulgazione delle leggi “fascistissime” del 1925-1926 e lo scioglimento dei Partiti e dei Sindacati non fascisti, l’Antifascismo entrò in clandestinità. Da quel momento la repressione contro gli oppositori al fascismo, attuata dal regime attraverso molteplici strumenti, come il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, il confino politico, l’ammonizione, la sorveglianza e, dal 1940, l’internamento, fu durissima. Per sfuggirvi molti antifascisti, nonostante il divieto di migrazione, furono costretti all’esilio e fuggirono all’estero dove, tra molte difficoltà, diedero vita a diverse forme di organizzazione e di mutuo sostegno, la più nota delle quali fu la Concentrazione Antifascista.

Sia in Italia che all’estero, contro gli antifascisti fu messa in campo una vasta rete di delatori, spie, sobillatori, agenti provocatori organizzati dalla polizia segreta fascista, l’OVRA (Opera Vigilanza Repressione Antifascismo), alla quale si aggiunsero anche persone comuni desiderose di accreditarsi presso il regime.

A partire dagli anni Trenta, movimenti antifascisti si imposero anche nei Paesi dove si affermarono forze politiche riconducibili al prototipo fascista, come l’Austria, la Germania e la Spagna, e con la Seconda Guerra Mondiale, nei Paesi europei occupati dai nazifascisti. Di particolare importanza in questo quadro fu la Guerra Civile spagnola (1937-1939) che contribuì a rinsaldare i rapporti tra le varie esperienze antifasciste nazionali.

In Italia i lunghi anni di carcere e confino a cui furono condannati gli antifascisti significarono spesso, accanto alle numerose sofferenze e privazioni, anche studio, approfondimento e confronto. Produssero una ricchissima letteratura carceraria, il cui esempio più noto sono i “Quaderni del carcere” di Antonio Gramsci. Maturò, cosi, ben presto tra la maggior parte degli antifascisti, la convinzione che dopo il fascismo si sarebbe dovuto edificare uno Stato nuovo e non semplicemente restaurare lo stato liberale: l’Antifascismo si tradusse così in programmi di riforma degli assetti sociali e politici ispirati a una concezione allargata della cittadinanza e dei diritti, alla diffusione del benessere comune ed alla rifondazione o rinnovamento degli ordinamenti democratici nell’Europa postbellica (si veda “Per un’Europa libera e unita”, meglio conosciuto come Manifesto di Ventotene). In questa chiave, in Italia l’Antifascismo non solo animò la Resistenza – i cui quadri politici spesso provenivano dalla precedente esperienza della persecuzione antifascista – ma dopo la Seconda Guerra mondiale, assunse l’orientamento di una cultura politica di promozione e attuazione della Costituzione italiana, opposizione ai progetti di ricostituzione del fascismo storico e, più in generale, a tutti gli atteggiamenti e comportamenti antidemocratici, autoritari e di intolleranza. In questo senso l’Antifascismo, a differenza del fascismo, resta un fenomeno politico vitale e capace di durare nel tempo, oltre la congiuntura storica in cui è nato, in grado di unire, senza cancellare, forze e culture politiche differenti.

Delitto Matteotti

Giacomo Matteotti era il segretario del Partito Socialista Unitario, nato il 4 ottobre 1922 a seguito di una delle numerose scissioni del Partito Socialista Italiano in quegli anni. Fervente antifascista e abile oratore, Matteotti venne rapito il 10 giugno 1924 da una squadra fascista capeggiata da Amerigo Dumini e operativa, probabilmente, per esplicita volontà di Benito Mussolini. Matteotti era, infatti, considerato dal regime come un pericoloso oppositore, dato che aveva denunciato pubblicamente e in Parlamento, il 30 maggio 1924, durante la prima seduta della nuova legislatura, i brogli elettorali attuati dalla nascente dittatura nelle elezioni del 6 aprile 1924 e le tangenti che importanti esponenti di governo e/o vicini a Mussolini – tra cui parrebbe ci fosse anche il fratello Arnaldo – avevano preso dalla Sinclair Oil per le concessioni petrolifere. Matteotti contestava, insomma, citando fatti ed episodi circostanziali di violenza a danno di esponenti delle opposizioni, la validità delle stesse elezioni politiche, delle quali chiese l’annullamento.

Il rapimento e il successivo omicidio dell’esponente antifascista – il cui corpo venne trovato circa due mesi dopo – sanciscono storicamente, nelle numerose opposizioni antifasciste, l’abbandono dell’idea di una opposizione legalitaria al regime, fatta cioè sui banchi del Parlamento. Il cosiddetto “delitto Matteotti” portava, quindi, alla cosiddetta secessione dell’Aventino, ovvero il metaforico ritiro per protesta, sul colle romano, di tutti i deputati dell’opposizione, e a una profonda, seppur temporanea, crisi dello stesso regime fascista.

Il 3 gennaio 1925, di fronte alla Camera dei deputati, Benito Mussolini si assunse pubblicamente la «responsabilità politica, morale e storica» del clima nel quale l’assassinio si era verificato. Inoltre, ben due memoriali avrebbero alla fine accusato Mussolini come mandante del delitto Matteotti:

  • il primo di Filippo Filippelli, coinvolto nel delitto per aver fornito ai sequestratori l’autovettura utilizzata per il rapimento. Questi accusava Amerigo Dumini, Cesare Rossi, Emilio De Bono e lo stesso Mussolini, citando inoltre l’esistenza di un organismo di polizia politica interno al Partito nazionale fascista, la cosiddetta “Ceka” (antesignana dell’Ovra), diretta dal Rossi, dal quale sarebbe stato organizzato materialmente l’assassinio di Matteotti.
  • Il secondo memoriale, di analogo contenuto, era invece di Cesare Rossi, su cui Mussolini stava tentando di rovesciare ogni responsabilità. In esso venivano raccontate quali fossero le attività del gruppo di squadristi a cui veniva affidata l’esecuzione di rappresaglie e di vendette politiche.

Le leggi fascistissime

Il termine «leggi fascistissime» identifica una serie di norme giuridiche, emanate tra il 1925 e il 1926, che sancirono l’inizio della trasformazione dell’ordinamento giuridico del Regno d’Italia in senso autoritario. Tale processo di graduale erosione delle prerogative democratiche del Paese venne tuttavia portato a compimento soltanto nel 1939, quando l’istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni eliminò dall’ordinamento statale ogni residua parvenza di suffragio. In particolare, i provvedimenti in oggetto stabilivano che:

  • il Partito Nazionale Fascista era l’unico legale (vennero di conseguenza sciolte tutte le formazioni politiche, le associazioni e le organizzazioni accusate di esplicare azione contraria al regime);
  • il capo del governo doveva rispondere del proprio operato unicamente al re d’Italia e non più al parlamento (la cui funzione venne così ridotta a semplice luogo di ratifica degli atti adottati dal potere esecutivo);
  • il Gran Consiglio del fascismo, presieduto dallo stesso Mussolini e composto da vari notabili del regime, era innalzato al rango di organo supremo del partito fascista, nonché massimo organo costituzionale del Regno d’Italia;
  • tutte le associazioni di cittadini dovevano essere sottoposte al controllo delle autorità di Pubblica Sicurezza;
  • gli unici sindacati riconosciuti erano quelli fascisti (scioperi e serrate vennero tassativamente proibiti);
  • funzionari di nomina governativa sostituivano le amministrazioni comunali e provinciali elettive, che risultavano pertanto abolite;
  • tutte le testate giornalistiche dovevano essere sottoposte a controllo ed eventuale censura qualora si ravvisassero al loro interno contenuti ritenuti anti-nazionali o di mera critica nei confronti del governo.

Venne inoltre sancita l’istituzione di una serie di misure ed organi repressivi:

  • il confino politico per gli oppositori, che prevedeva la messa al bando degli antifascisti dalla società civile;
  • il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, con competenza sui reati contro la sicurezza dello Stato (per i quali era prevista anche la pena di morte) ed un collegio giudicante formato da membri della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale e delle Forze Armate;
  • l’OVRA, la polizia segreta del regime, operativa a partire dal 1927.

Il Tribunale Speciale

Il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato fu istituito dal regime fascista con la legge n. 2008 del 25 novembre 1926, “Provvedimenti per la difesa dello Stato” – una delle cosiddette leggi fascistissime con lo scopo di reprimere meglio l’opposizione antifascista, in Italia e all’estero. Attraverso questo provvedimento fu reintrodotta la pena di morte e vennero creati una nuova serie di reati su cui fu competente, appunto, un nuovo organo giurisdizionale con composizione e procedura militare. Esso era infatti composto da:

  • un presidente, scelto tra gli ufficiali generali del Regio Esercito, della Regia Marina, della Regia Aeronautica e della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale;
  • cinque giudici, scelti tra gli ufficiali della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (un organo posto alle dirette dipendenze di Mussolini, di fatto il braccio armato del fascismo);
  • un relatore, senza diritto di voto, scelto tra il personale della giustizia militare, che operava secondo le norme del Codice penale per l’esercito sulla procedura penale in tempo di guerra.

Le sentenze del Tribunale speciale non erano suscettibili di ricorso, né di alcun mezzo di impugnativa, salva la revisione.

In questo modo, il Tribunale Speciale dello Stato assumeva la caratteristica di un organo giurisdizionale di parte, di fatto il braccio giudiziario del regime.

Le modalità di funzionamento erano semplici: dopo la denuncia, il caso veniva affidato alla sezione istruttoria del Tribunale e si poteva concludere con il proscioglimento dell’imputato o con il rinvio a giudizio. L’istruttoria era segreta e, di fatto, si limitava ad a utilizzare e riproporre le prove raccolte dalla polizia giudiziaria e dall’Ovra. Durante tutto questo periodo, gli imputati non potevano avvalersi di un avvocato difensore e rimanevano in carcere, dove subivano interrogatori con bastonature e torture, in stato di isolamento, privi di comunicazioni con i familiari.

Il dibattimento si svolgeva in un’aula del Palazzo di Giustizia di Roma ed era ridotto a una formalità procedurale. Raramente un processo durava più di due o tre giorni e più spesso poteva concludersi in poche ore, anche perché le sentenze erano già prestabilite. La procedura era molto sbrigativa: dopo l’interrogatorio frettoloso degli imputati e dei testimoni d’accusa, si passava alle richieste del pubblico ministero e, quindi, alla sentenza; gli avvocati della difesa venivano spesso intimiditi, interrotti e minacciati.

Moltissimi antifascisti subirono i processi del Tribunale Speciale: da Gramsci a Pertini, da Terracini ad Adele Bei, da Spinelli a Di Vittorio etc.

Anche contro gli oppositori delle minoranze slave (“allogeni” come si diceva allora) il regime utilizzò il Tribunale Speciale, mostrando particolare severità: basti pensare che 26 delle 31 condanne a morte fatte eseguire dal Tribunale Speciale, furono irrogate a cittadini italiani di lingua slovena o croata.

Nel giugno 1929, la competenza del Tribunale Speciale venne estesa a Libia e Somalia.

Il Tribunale Speciale venne soppresso dal regio decreto-legge 29 luglio 1943, n. 668, adottato in seguito alla prima riunione del governo Badoglio. Il 3 dicembre 1943 nella Repubblica Sociale Italiana venne ricostituito un tribunale omonimo, che sarebbe rimasto operativo fino alla Liberazione.

Nel complesso, tra il 1927 e il 1943, il Tribunale Speciale emise 978 sentenze per reati politici a 5.619 imputati. Le condanne ammontano nell’insieme a 27.752 anni, 5 mesi e 19 giorni di reclusione, quelle a morte sono 42, di cui 31 eseguite.

Il confino politico

Il confino politico costituì una delle più articolate e complesse attività repressive e, con il Tribunale Speciale, una delle misure principali con cui Mussolini perseguitò ogni forma di dissenso, sia quello organizzato dai partiti politici, che quello cosiddetto “spontaneo”.

L’idea di una misura di relegamento coatto contro gli oppositori, venne introdotta per la prima volta nel 1863 e successivamente nel 1889 fu istituito l’antesignano del confino politico fascista: il domicilio coatto. Tale misura fu, successivamente, ampliata dal fascismo con la Legge di pubblica sicurezza del 6 novembre 1926 che istituiva formalmente il confino di polizia e ulteriormente disciplinato nel 1931, con la promulgazione del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. In esso era previsto, tra l’altro, che “Possono essere assegnati al confino di polizia, coloro che svolgono o abbiano manifestato il proposito di svolgere un’attività rivolta a sovvertire violentemente gli ordinamenti politici, economici o sociali costituiti nello Stato o a contrastare o a ostacolare l’azione dei poteri dello Stato”.

A decidere questa misura punitiva, di tipo amministrativo e con carattere preventivo, era una Commissione provinciale per l’ammonizione e il confino, composta da esponenti istituzionali e fascisti, che indicava anche la sede di assegnazione, scegliendo tra le 262 colonie a disposizione. La pena inflitta variava da 1 a 5 anni, sempre prorogabili. Si distinguevano, inoltre, due generi di confino: quello comune, per i reati non di matrice politica; e quello politico, cui erano destinatari gli oppositori del fascismo.

Le località del confino politico furono le isole minori italiane – come ad esempio Ventotene, Ponza, Ustica, Lipari, Tremiti e Lampedusa – e l’entroterra, soprattutto dell’Italia meridionale e centrale. Le esperienze di confino politico nell’entroterra si caratterizzarono per la solitudine dei perseguitati (nella stessa località non erano inviate più di 2-3 persone alla volta), la fame e le malattie, ma anche per una minore vigilanza da parte delle autorità fasciste. Il confinamento nelle isole minori italiane, invece, si distinse per il prevalere di una vita in comunità – con cameroni in cui dormire o, più raramente case private – e per una sorveglianza costante, accompagnata soventemente da persecuzione di gruppo o personale, condanne di reclusione in carcere e maltrattamenti di ogni tipo, anche fisici.

Il confino politico subì nel corso degli anni del regime alcuni importanti sviluppi, che ne modificarono in parte l’assetto istituzionale originario: obbligo del lavoro per i confinati; introduzione del rispetto di alcuni orari per l’uscita e il rientro; divieto di frequentazione degli esercizi pubblici o dei luoghi di ritrovo etc.

Le principali vittime del confino politico furono: esponenti di partiti e movimenti politici (comunisti, socialisti, giellisti, anarchici, repubblicani, etc.); semplici oppositori al regime che venivano classificati come antifascisti; oppositori politici dei territori coloniali e, in particolare, libici, soprattutto dopo l’introduzione della legislazione razziale nel 1938; omosessuali, accusati di “attentato alla dignità della razza”.

Per finire al confino bastava veramente poco: partecipare al funerale di un amico comunista, deporre fiori sulla tomba di un antifascista, raccontare barzellette sul fascismo o sul duce, leggere libri ritenuti sovversivi, cantare inni considerati rivoluzionari (anche in abitazioni private), festeggiare il primo maggio etc.

Dal 1927 al 1943 la misura del confino politico fu inflitta a 12.330 oppositori politici, 177 dei quali morirono durante il periodo di isolamento. Gli anni di confino inflitti superarono abbondantemente e complessivamente i 50.000.

Concentrazione Antifascista

La Concentrazione Antifascista (più formalmente Concentrazione d’Azione Antifascista) fu la più importante organizzazione di cooperazione politica tra esponenti di vari partiti italiani fuoriusciti all’estero, ad eccezione dei comunisti e dei popolari.

Creata nel 1927 da Alcide De Ambris e Luigi Campolonghi – rispettivamente presidente e segretario della Lega Italiana Diritti dell’Uomo (LIDU) – aveva come proprio organo di informazione il giornale La Libertà, diretto da Claudio Treves. Fu operativa prevalentemente in Francia, nella cui capitale aveva la propria principale sede operativa. L’obiettivo della Concentrazione Antifascista era quello di condividere tra tutti i partiti e movimenti antifascisti una piattaforma comune di opposizione al fascismo e, conseguentemente, smussare le annose divisioni che avevano fino ad allora caratterizzato la loro attività in Italia.

L’organizzazione era, tuttavia, caratterizzata da un programma politico sostanzialmente sprovvisto di un piano organico e strutturato di rivendicazioni di carattere sociale, economico e politico, tanto da rendere impossibile alla stessa Concentrazione Antifascista esprimere una condanna inequivocabile del fascismo e della monarchia.

Solo nel maggio del 1928, il Comitato centrale della Concentrazione Antifascista indicò l’obiettivo finale della battaglia antifascista nell’instaurazione della repubblica democratica dei lavoratori, inducendo così i repubblicani a sostenere ed essere parte attiva nelle iniziative della Concentrazione. Fu, pertanto, deliberato che le organizzazioni di partito devolvessero alla stessa la metà del ricavato delle iniziative da loro promosse.

Questa adesione al repubblicanesimo mutò l’atteggiamento di Giustizia e Libertà (GL), il quale decise di stipulare un accordo con il PSI, che sancì l’ingresso nella stessa anche di GL e la sua inclusione nel comitato esecutivo dell’organizzazione, composto da tre elementi, in rappresentanza del PSI, del PRI e di GL, scelti di comune accordo fra i partiti. Successivamente, i contrasti tra le varie correnti si susseguirono: socialisti e repubblicani criticarono come una “invasione di campo” il programma di Rosselli, giudicato operaistico e giacobino, mentre non veniva particolarmente ben visto l’orientamento del Partito Socialista nella direzione di un patto d’unità d’azione con il Partito Comunista d’Italia.

Ciò indusse a continue e sempre più laceranti spaccature all’interno dell’organizzazione, fino al suo scioglimento nel 1934. Ciò comportò che, di fatto, la Concentrazione Antifascista svolse un ruolo chiave in Italia come organizzazione di opposizione al fascismo, solo nel mantenere i legami, informare ed assistere i confinati politici in Italia.

Fascismo e Antifascismo in Europa

Nato ufficialmente in Italia il 23 marzo 1919, il fascismo trovò ben presto estimatori ed imitatori in tutta Europa, affascinati dal suo acceso carattere antibolscevico, dalla retorica antidemocratica e dal culto dell’azione e della violenza. I movimenti politici che, nel periodo tra le due guerre mondiali, si richiamarono in maniera diretta o indiretta a tale ideologia possono, indicativamente, essere divisi in quattro grandi categorie:

  1. quelli che giunsero al potere per vie legali, instaurando successivamente dittature di stampo organicamente fascista (il campo appare ristretto all’Italia e alla Germania nazionalsocialista);
  2. i movimenti che costituirono un rilevante puntello ideologico a sostegno di regimi militari ai quali essi stessi risultarono, tuttavia, completamente subordinati (a titolo di esempio si possono citare la Spagna e la Romania);
  3. quelli in cui tale fenomeno, pur dotato di un seguito non indifferente, rimase sempre ampiamente minoritario, senza mai arrivare a costituire una diretta minaccia alla stabilità dell’ordinamento statale (come nel Regno Unito, in Irlanda e in Svezia);
  4. quelli in cui le forze fasciste o para-fasciste, confinate in una dimensione marginale sino allo scoppio del secondo conflitto mondiale, acquisirono invece un’importanza variabile, ma comunque notevole in seguito alla sconfitta e all’occupazione dei rispettivi Paesi, ad opera delle truppe tedesche (Francia, Belgio, Paesi Bassi, Norvegia, Ungheria, Croazia, Repubbliche baltiche ed Ucraina rappresentano a questo proposito gli esempi più eclatanti).

L’esigenza di contrastare l’aggressività dell’ondata reazionaria che minacciava di travolgere l’intero continente fu, d’altra parte, all’origine del progressivo e speculare sviluppo della dimensione transnazionale dell’antifascismo che, sorto principalmente in Italia, si diffuse inizialmente in Francia, sulla scia dell’esilio forzato al di là delle Alpi di migliaia di perseguitati politici italiani, ed in seguito si estese al resto dell’Europa, man mano che la minaccia alle recenti conquiste democratiche iniziava ad assumere un carattere sistemico. Banco di prova fondamentale per l’antifascismo militante fu la guerra di Spagna, che fu testimone dell’afflusso di migliaia di volontari stranieri accorsi a difendere – armi alla mano – la giovane Repubblica, minacciata da una sedizione militare sostenuta da Hitler e Mussolini.

La grande mobilitazione non riuscì ad impedire che la lotta in terra iberica si concludesse con una cocente sconfitta; nondimeno, il movimento antifascista seppe trarre da questa esperienza, preziosi insegnamenti tanto politici quanto militari, che tornarono utili al momento di coadiuvare le forze regolari (quando non addirittura di sostituirsi ad esse, come nel caso della Jugoslavia) e le truppe alleate nelle campagne di liberazione nazionale, che portarono nel 1945 alla definitiva sconfitta del nazismo e del fascismo.

La Guerra Civile Spagnola

Nei giorni tra il 17 ed il 21 luglio 1936, un settore delle Forze Armate spagnole guidato dal generale Francisco Franco, forte del sostegno delle classi agiate, della Chiesa cattolica e dell’Italia fascista, si sollevò in armi contro il governo del Fronte Popolare, uscito vincitore dalle elezioni del febbraio precedente. Il tentativo di golpe si risolse in un parziale fallimento, ma l’incapacità delle forze governative di estinguere immediatamente i focolai della rivolta, diede origine alla Guerra Civile Spagnola.

La “neutralità malevola” di Regno Unito, Francia e Stati Uniti nei confronti dell’esecutivo di Madrid da un lato, e il massiccio supporto logistico fornito da Mussolini, Hitler e Salazar ai ribelli dall’altro, permise rapidamente a questi ultimi di disporre di una netta superiorità militare che li portò, nel mese di novembre, a minacciare direttamente la Capitale. L’afflusso di volontari stranieri riversatisi, sin da subito, al di là dei Pirenei per prestare soccorso alla Repubblica minacciata, fu quindi coordinato dall’Unione Sovietica e incanalato nella costituzione delle Brigate Internazionali, che si distinsero nella serie di vittoriosi scontri per la difesa di Madrid, che culminarono a marzo del 1937 nella battaglia di Guadalajara, ove il Battaglione Garibaldi, formato da antifascisti italiani, inflisse una sonora sconfitta ai reparti inviati dal duce a sostegno di Franco.

Di pari passo si procedette, in campo governativo, alla progressiva marginalizzazione delle iniziali istanze rivoluzionarie, in favore della ricostruzione dell’autorità dello Stato, funzionale ad indirizzare tutte le energie al perseguimento della vittoria. La crescente sproporzione delle forze in campo – dovuta, in massima parte, al consistente afflusso di uomini e materiale bellico proveniente da Roma e da Berlino, le cui forze aeree si resero a più riprese protagoniste di terribili bombardamenti terroristici ai danni della popolazione civile) – unita ad una strategia iper-offensiva rivelatasi fallimentare, vanificò tuttavia tali sforzi.

Il 1° aprile 1939 le truppe di Franco portarono a termine la conquista dell’intera Spagna, assoggettando il Paese ad un regime clericale di stampo fascista che ebbe termine soltanto con la morte del caudillo nel novembre del 1975. I combattenti italiani inquadrati nell’esercito repubblicano (al pari dei loro commilitoni spagnoli ed internazionali) furono costretti a riparare in Francia, ove trovarono ad attenderli prima i campi di concentramento, poi la riconsegna a Mussolini da parte delle autorità collaborazioniste di Vichy, con conseguente pioggia di condanne al confino politico, da scontare sull’isola di Ventotene.

L’Italia, da parte sua, non ottenne alcun beneficio dalla partecipazione alla guerra civile, nel quale dilapidò gran parte delle proprie già scarse risorse militari, giungendo, pertanto, impreparata allo scoppio del secondo conflitto mondiale.

Il Manifesto di Ventotene

Il Manifesto di Ventotene è un documento considerato fra i testi fondanti l’Unione Europea, in quanto prefigura la necessità di istituire una federazione europea, dotata di un governo e di un parlamento democratico con poteri reali in economia e politica estera. Redatto nel 1941 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi con il titolo «Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto», mentre stavano scontando la loro condanna al confino nell’isola di Ventotene, venne trasmesso clandestinamente, grazie ad alcune donne come Ursula Hirschmann ed Ada Rossi e, quindi, pubblicato nel 1944 da Eugenio Colorni, che ne scrisse la prefazione.

È bene sottolineare, tuttavia, che il Manifesto di Ventotene è un documento collettivo, in quanto anche altri confinati antifascisti contribuirono alle discussioni che portarono alla definizione del testo. Originariamente fu articolato in quattro capitoli, ma Eugenio Colorni che, poco prima di essere ucciso, ne curò la redazione, lo suddivise in tre:

  1. «La crisi della civiltà moderna» interamente elaborato da Spinelli;
  2. «Compiti del dopoguerra. L’unità europea» interamente elaborato da Spinelli;
  3. «Compiti del dopoguerra. La riforma della società» la prima parte definita da Rossi, la seconda da Spinelli.

Il Manifesto di Ventotene si fonda sui concetti di pace e libertà kantiana, e sull’idea che fosse necessario creare una forza politica esterna ai partiti tradizionali, inevitabilmente legati a dinamiche nazionali e, quindi, inadatti a rispondere alle crescenti sfide dell’internazionalizzazione. Propugna la necessità dell’esistenza di un movimento che sapesse mobilitare tutte le forze popolari attive nei vari Paesi d’Europa, al fine di far nascere uno Stato federale con una propria, unica forza armata, dedicata al mantenimento della pace. Per quanto riguarda la vita economica europea «liberata dagli incubi del militarismo o del burocratismo nazionale» esso prevedeva l’abolizione, limitazione, correzione o estensione – da valutare caso per caso – della proprietà privata «per creare intorno al nuovo ordine un larghissimo strato di cittadini interessati al suo mantenimento, e per dare alla vita politica una consolidata impronta di libertà, impregnata di un forte senso di solidarietà sociale».

Dalla spinta impressa dal Manifesto di Ventotene, nacque nel 1943 il Movimento Federalista Europeo e, soprattutto, l’idea che lo sviluppo della civiltà moderna – che era stato arrestato dai regimi dittatoriali – portasse ad una riforma dell’intera società per «riprendere immediatamente in pieno il processo storico contro la disuguaglianza e i privilegi sociali».

La guerra d'Etiopia

Varie furono le ragioni che spinsero l’Italia fascista ad aggredire l’Etiopia, guidata dal Negus Neghesti (imperatore) Hailé Selassié ed unico Stato africano rimasto indipendente assieme alla Liberia, che costituiva però, a tutti gli effetti, una creazione coloniale. Innanzitutto, il Regime desiderava conseguire l’agognato successo internazionale, che ne consolidasse il prestigio interno ed estero. In questo modo, voleva anche vendicare l’umiliante sconfitta subita nel 1896 ad Adua dall’«Italietta» liberale (come veniva sprezzantemente definita l’Italia giolittiana dai nazionalisti). A questo, si affiancava il desiderio di disporre di un territorio del quale sfruttare le presunte risorse, specie agricole, indirizzandovi la manodopera in eccesso, presente sul territorio nazionale.

Le operazioni militari propriamente dette si protrassero dal 3 ottobre 1935 al 5 maggio 1936 e, malgrado il coraggio e l’abnegazione mostrati dai soldati abissini, terminarono con l’occupazione della capitale Addis Abeba e con la vittoria delle truppe italiane, forti di una superiorità numerica e tecnologica soverchiante. Sin dalle fasi iniziali del conflitto, il fascismo aveva, inoltre, manifestato la volontà di condurre una vera e propria campagna di sterminio ai danni del nemico. La Regia Aeronautica arrivò ad utilizzare persino i gas asfissianti (proibiti dalla convenzione di Ginevra), quali l’iprite e il fosgene, che provocarono migliaia di vittime in una popolazione del tutto priva di difese contro gli aggressivi chimici.

Scarsissimo sostegno ricevette il Negus dai tradizionali alleati francesi e britannici, poco propensi ad inimicarsi Mussolini, e anche le sanzioni economiche comminate all’aggressore dalla Società delle Nazioni – della quale l’Etiopia faceva parte sin dal 1923 – si rivelarono del tutto infruttuose, contribuendo anzi a diffondere in Italia uno spirito di unione nazionale che venne abilmente cavalcato dalla propaganda del Regime. Fu proprio in questo periodo che raggiunse il picco di consenso tra la popolazione e approfittò del clima creatosi, per mettere in atto un’ulteriore stretta repressiva ai danni degli oppositori, che si concretizzò in un’ondata di denunce al Tribunale Speciale e alle commissioni per l’ammonizione e il confino.

La brutalità dei colonizzatori non venne meno con la fine ufficiale delle ostilità, toccando anzi nuove vette in concomitanza con il precoce emergere di un movimento di resistenza nazionale all’interno del popolo assoggettato. All’indomani del fallito attentato al viceré Rodolfo Graziani, la violenza fascista si scatenò prima contro l’inerme popolazione di Addis Abeba, poi contro il clero cristiano copto residente nel convento di Debre Libanos, provocando in pochi giorni il massacro di circa 19.000 etiopi.

Tuttavia, a dispetto delle stragi, delle deportazioni e di un rinnovato utilizzo di armi chimiche da parte dell’occupante, gli arbegnuoc (i «patrioti», così si definivano i guerriglieri abissini) continuarono la lotta, dando filo da torcere alle autorità italiane e, in seguito, collaborando con le truppe britanniche fino alla riconquista finale del Paese e al trionfale ritorno di Hailé Selassié ad Addis Abeba il 5 maggio 1941.

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