Descrizione
Venivano chiamati “IMI”. Erano soldati italiani che “si rifiutarono di obbedire”.
Dopo l’armistizio del 1943 oltre 650 mila militari del Regio Esercito vennero catturati dai Tedeschi e deportati nei lager dove in più di 50 mila persero la vita.
Molti rifiutarono ogni collaborazione, sia militare che come lavoratori, con il Reich e la RSI e rimasero nei campi. Dimenticati e guardati con scetticismo nel dopoguerra, meritano di essere ricordati come protagonisti di quell’epoca.
L’8 settembre 1943 l’Italia firma l’armistizio con gli Alleati. Pochi giorni dopo Mussolini fonda la Repubblica Sociale Italiana. L’Esercito Italiano è allo sbando.
In questa fase oltre un milione di militari italiani sono disarmati dai Tedeschi. E più di 800 mila sono quelli fatti prigionieri e sottoposti a pressanti richieste di collaborazione, prima con la Wehrmacht poi con la Repubblica di Salò.
Gli stessi ufficiali e soldati che dal 10 giugno 1940 combattono al fianco dei Tedeschi sui fronti della Francia meridionale, Grecia, Russia, Balcani, ma anche dell’Italia meridionale, si trovano di fronte ad una scelta: seguire il giuramento al Re Vittorio Emanuele III, nel frattempo rifugiatosi a Brindisi, o restare con Mussolini, liberato dagli alleati tedeschi.
Se per le truppe di stanza nel Meridione la scelta è più facile, diversa è la situazione per quelle al Nord dove è presente l’esercito germanico.
La maggior parte dei militari, oltre 650 mila, oppone un secco “No” alla proposta di combattere per le forze dell’Asse e per questo è tradotta nei lager del Terzo Reich, sfruttata come forza lavoro coatta e costretta a vivere in condizioni disumane.
Pur essendo di fatto prigionieri di guerra, i soldati acquisiscono lo status di “Internati Militari Italiani” (IMI) voluto da Hitler e Mussolini per evitare la tutela delle Convenzioni internazionali e giustificare il fatto che ci fossero degli Italiani prigionieri dell’alleato tedesco. Di questi militari oltre 50 mila hanno perso la vita per malattie e stenti, talvolta brutalmente assassinati.
La Convenzione di Ginevra del 1927 stabilisce infatti per il Paese che durante un conflitto cattura dei militari armati l’obbligo di nutrirli e farli assistere dalla Croce Rossa.
Ma questo non vale per gli IMI che sono stati sfruttati, malnutriti e fatti vivere in condizioni igienico – sanitarie pietose. I militari italiani che si rifiutavano di collaborare venivano stipati in carri bestiame e trasferiti nei campi di concentramento. I militari di truppa e i sottufficiali vennero rinchiusi negli
Stammlager o Stalag per essere adibiti al lavoro coatto nelle miniere, nelle fabbriche e nelle campagne sopperendo all’esigenza di manodopera dell’economia tedesca.
Chi si rifiutava era destinato ai campi di punizione (Straflager) dove la possibilità di sopravvivenza si riduceva ancor di più.
I circa 30 mila ufficiali dell’Esercito vennero invece collocati negli Offizierlager dove non erano obbligati a lavorare, ma erano sottoposti a continue pressioni per aderire alla Repubblica Sociale Italiana.
La maggior parte di loro, nonostante le crescenti difficoltà, non si piegò.
Nel 1944, in seguito agli accordi tra Hitler e Mussolini gli IMI vengono coinvolti nel processo di “civilizzazione”, cioè non più considerati dei militari prigionieri di guerra ma trasformati in “lavoratori civili”. Questo passaggio in realtà non migliora le loro condizioni di vita e consente ai Tedeschi di sfruttare i prigionieri in un momento in cui hanno bisogno di più manodopera coatta, dato che tutta la popolazione tedesca è ormai impegnata nei combattimenti al fronte.
A partire dal dicembre 1944 la coercizione lavorativa riguarda anche gli ufficiali (sono esenti solo generali, cappellani, medici, malati e ultrasessantenni), violando un residuo principio di diritto internazionale.
Ma le sofferenze degli IMI non terminarono neanche con la guerra: con la fine della prigionia comincia una liberazione sofferta, diluita in parecchi mesi.
Nell’Italia del dopoguerra gli internati sono accolti con imbarazzo, indifferenza e diffidenza. La loro tragica vicenda viene dimenticata.
Solo nel 2006 la Repubblica Italiana ha concesso la Medaglia d’onore ai militari e civili deportati e internati o ai loro eredi.
Dopo un lungo periodo di silenzio, nel 2008 la vicenda dei 650 mila IMI è stata finalmente oggetto dell’interesse congiunto dei governi dei due Paesi, che hanno nominato una specifica commissione di storici con lo scopo di occuparsi del passato di guerra Italo – Tedesco e in particolare del destino degli Internati Militari Italiani deportati in Germania, tra i quali era presente il lendinarese Luigi Boraso.