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di Antonella Amendola

Mio padre era un uomo ordinato, dominato dal senso del dovere.

Ieri, 25 ottobre, a Montecitorio, è stato presentato il libro di Alfredo Capone intitolato a Giovanni Amendola. Mentre ascoltavo, nella platea, sfogliando le pagine della corposa biografia, il ritratto in copertina di mio nonno con gli occhi cerchiati di nero, emaciato, già consegnato al suo triste destino per le percosse ricevute da una squadraccia fascista, mi faceva ripensare a mio papà Pietro, il più giovane della famiglia Amendola che era nato il 26 ottobre.

Lui aveva solo 7 anni quando gli fu sottratto il padre e se lo interrogavo, con tanto pudore, mi diceva: «Papà era bellissimo, alto, con le mani bianche, grandi, gli occhi scuri. Quando mi faceva entrare nel suo letto per giocare e mi abbracciava io mi sentivo il bambino più fortunato del mondo». Mio padre ha lasciato un bauletto dove ci sono oggetti di suo padre: la camicia insanguinata indossata quando fu aggredito, la maglia di lana ridotta a brandelli, la tazzina che teneva sul comodino nella clinica di Cannes dove è spirato, il rasoio, il tesserino parlamentare e quello da giornalista, un pettine, etc. Tutta una vita in un bauletto.

La memoria di quell’uomo alto, con le mani bianche, grandi, e gli occhi tanto espressivi è lì, chiusa in un bauletto. Mio padre era un uomo ordinato, dominato dal senso del dovere. Ancora qualche giorno prima di morire (7 dicembre 2007) era alla scrivania, che era sta di suo padre, a cercare di far pulizia tra le carte di famiglia. Buttò nel cestino alcuni conti di tintoria di Giovanni Amendola: li ho raccolti io, senza che lui se ne accorgesse. Mi sembra che non si debba gettare niente di quel poco che rimane della vita di Giovanni Amendola. Pietro fu preso dai fascisti in un bar all’Aventino.

Si era appena laureato, avrebbe voluto, col suo carattere meticoloso, diventare notaio e faceva pratica presso il notaio Capasso. Finì in carcere. Una detenzione lunga più di tre anni: lo liberò la popolazione di San Gimignano perché gli aguzzini erano scappati sotto il fuoco dei bombardamenti americani. In casa ci sono i fogli della detenzione: aveva perso trenta chili, veniva spesso messo in cella d’isolamento per aver scambiato libri con altri detenuti. Dal carcere scriveva a casa lettere sempre piene di ottimismo: non voleva che la madre e i fratelli Giorgio e Antonio stessero in pena per lui. Così era mio padre, forte e riservato. Con le poche forze che gli rimanevano andò al gazebo a votare Veltroni alle primarie.

Mi chiedo se oggi fosse vivo che cosa penserebbe del travaglio del Pd. Si terrebbe nel cuore ogni dubbio e continuerebbe a pagare la sua quota di iscritto, perché gli uomini di quella generazione, gli antifascisti che hanno attraversato quelle prove sanno che dividendosi non si va da nessuna parte.

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