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Pubblichiamo un articolo del nuovo numero dell’antifascista, del 2021 – Gennaio-Febbraio 2021

Caro Vittore

Nella serata di giovedì 18 febbraio 2021 è venuto a mancare Vittore Bocchetta, Socio onorario della Federazione ANPPIA di Verona: antifascista, deportato, artista.

Quando in occasione del compimento dei suoi cento anni (15 novembre 2018) l’Istituto veronese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, la Società Letteraria e l’ANPPIA di Verona organizzarono una manifestazione per celebrare Vittore Bocchetta, grande uomo e grande amico, venne edito un libro con alcuni suoi disegni-caricature che egli aveva eseguito nel periodo di detenzione nel carcere degli Scalzi di Verona. Nel libro, intitolato appunto Disegni prigionieri, venivano riportate alcune frasi rilasciate da Vittore Bocchetta pochi mesi prima. Una in particolare, scandita in modo ieratico dall’attore che lo interpretava, emozionò il pubblico stipato nella sala, quasi fosse una delle sue sculture:

“Devo dichiararlo solennemente: a un certo punto la politica non era più una questione di partiti, era resistenza antifascista. Abbiamo eliminato le nostre differenze in nome dell’intento comune: abbattere il fascismo, costasse quel che costasse, fino alla morte nostra. La parola resistenza dice tutto, completa la visione. Resistere significava resistere alla dittatura, alla tortura, alle calunnie. Resistere alla prepotenza. Alla disumanità.”

Spesso quando si parla di vite viene usato il termine ‘incredibile’ ma non si abusa di questo connotato ripercorrendo le varie tappe del vissuto di Vittore Bocchetta.

Nasce a Sassari qualche giorno dopo la fine della Prima guerra mondiale e per celebrare la vittoria gli viene imposto il nome Vittore. Il padre è ufficiale del Genio sottoposto a continui trasferimenti e in uno di questi il giovane Vittore, frequentante a Bologna il ginnasio gesuita, ha il suo primo scontro con i detentori del potere.

L’insegnante di religione lo prende in giro per le sue origini sarde e lui, ribellatosi all’ingiuria, dopo aver ricevuto una bacchettata in testa gli scaglia contro il calamaio che però va a colpire il ritratto del Re. Il padre, dapprima furente, capisce poi che è stata perpetrata un’ingiustizia verso il suo ragazzo e lo ritira dalla scuola. Questa decisione del padre da lui amatissimo segna la giovinezza di Vittore.

Ancora negli ultimi anni di vita rimpiangeva di aver dovuto sostenere per parecchi anni gli esami da privatista senza più frequentare la scuola e godere dell’amicizia e della complicità dei compagni. Trasferito a Verona il padre Manfredi muore dopo breve malattia ancor giovane lasciando nello sconforto e nelle difficoltà Vittore che, dopo essere tornato in Sardegna con la madre e i fratelli e aver conseguito la maturità classica, decide di ritornare a Verona a vivere da solo.

I rapporti con la madre saranno sempre un capitolo doloroso della sua vita. Sono varie e intricate le vicende di Vittore di quel periodo.

Trascorre alcuni mesi in Libia impiegato nell’amministrazione militare riuscendo, con il pretesto di dover sostenere un esame universitario, a rientrare in patria poco prima dell’entrata in guerra dell’Italia. A Verona può contare su qualche amicizia ma soprattutto sulla sua intraprendenza e sul suo ingegno. Come ha sempre sostenuto lui era uno spirito libero ma non un antifascista; potremo catalogarlo fra quei giovani cresciuti nel fascismo e nei suoi miti senza esserne più di tanto coinvolti.

Certo Vittore non ama le adunate, le divise, il chinare la testa agli ordini superiori. Sono proprio i fascisti a farlo diventare un antifascista.

Capita che una sera quando già l’Italia è entrata nella Seconda guerra mondiale si trova in un bar per ripararsi dalla pioggia quando entrano due membri dei battaglioni M (ai ragazzi nelle scuole diceva sempre che a quell’emme lui e i suoi amici attribuivano un altro significato) mentre alla radio si sta leggendo il bollettino di guerra. I due intimano ai presenti di alzarsi e Vittore risponde che solo alla lettura del mattino era obbligo ascoltarlo in piedi. Lo percuotono, gli fanno cadere gli occhiali ma lui indomito risponde colpo su colpo e solo l’intervento di un ufficiale lo salva.

Da allora gli organi del fascismo veronese lo identificano come sovversivo da controllare.

Entra in contatto con un piccolo nucleo antifascista di matrice comunista facente capo allo scultore Berto Zampieri dove conosce e diventa amico di un esule, Darno Maffini, che ogni tanto rientra a Verona da Parigi. Vittore non aderisce a nessun gruppo politico, non ne sente la necessità, vuol conservare la sua indipendenza di giudizio e di azione. La caduta del fascismo, l’occupazione tedesca, la costituzione della Repubblica sociale sono momenti vissuti da Bocchetta con intensità sempre più legato a quanti intendono opporsi al nuovo ordine fascista che si è costituito in città e nel Paese.

Nei giorni dell’armistizio con l’aiuto di don Allegrini, parroco della chiesa della Santissima Trinità, e di tante semplici donne del popolo aiuta centinaia di soldati a fuggire dalla caserma in cui erano rinchiusi dai tedeschi. Sempre ricordava alle scolaresche, scandendo forte il suo pensiero, il ruolo svolto dalle donne con generosità verso questi giovani loro compatrioti.

Viene arrestato una prima volta nel novembre 1943 quale appartenente a un primo Comitato di liberazione facente capo a Giuseppe Tommasi e trascorre alcuni mesi nell’ex sede del circolo rionale Filippo Corridoni a Porta Vescovo (fra gli altri è lì detenuto Norberto Bobbio che ricorderà quei giorni in una lettera a Vittore) e il carcere degli Scalzi nella zona di Porta Palio. Viene liberato come quasi tutti i membri di quel primo Cln e subito entra a far parte del secondo Cln più strutturato con rappresentanti dei partiti politici e in cui emerge la figura di Francesco Viviani del Partito d’Azione, il raggruppamento al quale Bocchetta sarà sempre idealmente legato.

Basti dire che per la festa dei suoi 100 anni a consegnare la targa dell’ANPPIA era venuto a Verona Ferruccio Parri, nipote del ‘Maurizio’ capo della Resistenza e grande figura dell’antifascismo. Ebbene, quando Vittore vide il giovane Parri che conosceva si commosse fino alle lacrime nel ricordo del nonno e della lotta di Liberazione.

Bocchetta entra però nel secondo Cln come indipendente e se qualcuno mugugna è Viviani a fare da garante. Riesce a laurearsi in lettere all’Università di Firenze pochi giorni prima di venire arrestato anche se è lui a consegnarsi ai fascisti per ottenere la liberazione della fidanzata e della madre prese in ostaggio.

Dopo essere stato percosso e torturato alle Casermette di Montorio viene nuovamente trasferito nel carcere degli Scalzi e dopo un breve passaggio nel palazzo Ina, sede del Comando nazista, è trasferito nel lager di transito di Bolzano. Del viaggio in camion verso l’Alto Adige Vittore ha sempre ricordato la presenza di alcuni ergastolani di Portolongone e di agenti dell’esercito del Sud in missione nell’Italia occupata che erano stati catturati dai fascisti. Figure meravigliose soleva dire che saranno uccisi con un colpo alla nuca a Bolzano nella Caserma Mignone proprio nei giorni in cui lui, con altri membri del secondo Cln, viene inviato nel lager di Flossenbürg.

Il 7 settembre 1944 Vittore diventa il numero 21631 del lager bavarese e a fine mese raggiunge Hersbruck, l’ultima tappa del suo calvario di deportato e dove assiste alla scomparsa dei suoi compagni di Verona Giuseppe Deambrogi , Guglielmo Bravo e Mario Ardu. In questo terribile lager, situato a una trentina di chilometri da Norimberga, Bocchetta rimane fino all’evacuazione quando durante la ‘marcia della morte’ riesce a fuggire assieme a un tipografo marsigliese, Marcel Maurin (ma non era sicuro del cognome), che poi fugge temendo il ritorno dei carcerieri.

A tanti anni di distanza da quell’evento Vittore ancora si struggeva di non aver più saputo nulla di lui. Le vicende del lager sono state narrate in un libro autobiografico più volte riedito con titoli diversi e con l’aggiunta di nuovi particolari. Questo libro, Prima e dopo «Quadri» 1918-1949, scritto con uno stile letterario essenziale e asciutto dovrebbe figurare nel pantheon delle memorie della deportazione, ma Vittore era un uomo che non cercava ribalte o celebrazioni, e neanche editori compiacenti. Preferì pubblicare da solo alcuni libri con la sigla non casuale “Edizioni GIELLE”. Nelle scuole, e a noi amici, raccontava spesso un episodio capitatogli dopo la fuga dagli aguzzini quando sviene a ridosso di un campo di prigionieri militari alleati che lo raccolgono e lo curano. Ebbene in quel frangente incontra un militare inglese in precedenza prigioniero in un paesino del veronese e che Bocchetta, dopo l’8 settembre, aveva aiutato a riparare in Svizzera.

Finita la guerra il militare inglese, in debito di gratitudine, lo invita a partire con lui per l’Inghilterra. Ma Vittore vuole ritornare a Verona la città in cui è sepolto il padre e dove spera di ricostruirsi una vita. Qualche anno fa il nipote Alberto ha scoperto che l’aereo che riportava in patria i militari inglesi era caduto sulla Manica e nessuno degli occupanti si era salvato. La pagina in cui Bocchetta descrive il suo arrivo alla stazione di Pescantina e come in sogno rivede suo padre e gli amici morti nei lager tedeschi, è una delle più ispirate e coinvolgenti della sua autobiografia. Verona, diceva Bocchetta, mi aveva dato per morto e i vecchi compagni avevano celebrato in suo onore un ufficio funebre. E invece Vittore torna e con caparbietà si appresta a difendere i valori di giustizia e libertà e a ricordare quanti avevano lottato contro il fascismo.

Fonda l’UVAM (Unione Veronese antifascisti militanti), antesignana dell’ANPPIA e una bella foto per i suoi 101 anni ce lo mostra con alle spalle la bandiera di quel tempo ritrovata dal suo giovane amico Jacopo Buffolo.

Ma la sua intransigenza morale, il suo non scendere a compromessi gli creano parecchie inimicizie proprio nell’ambiente che avrebbe dovuto essergli più riconoscente per quanto aveva patito. Sembra incredibile che Vittore, persona di grande ingegno e per di più laureato, non sia riuscito a trovare un lavoro tanto da essere costretto a rivolgersi a enti di assistenza.

Così all’inizio del 1949 emigra dapprima in Argentina e poi in Venezuela. Nei paesi sudamericani inizia la sua attività di artista disegnando e producendo oggetti ma, come spesso ricordava, lui è sempre stato un ingenuo pertanto viene regolarmente imbrogliato. I colpi di stato che abbattono in Argentina Peron e in Venezuela Perez Jimenez, danno un colpo definitivo alla sua attività imprenditoriale.

Per certi versi è la sua fortuna perché con la prima moglie di origine tedesca (Vittore ha avuto due altri matrimoni con una americana e una francese conclusisi tutti con altrettanti divorzi da lui sempre vinti) riesce a entrare negli Stati Uniti dove studia, si laurea di nuovo, ottiene la cattedra in letteratura comparata all’Università di Chicago e ha modo di scoprire la sua vena artistica. Diventa scultore e pittore, le sue opere vengono esposte in prestigiosi musei americani.

Quando sul finire degli anni Ottanta per l’onda lunga del maccartismo, raccontava, deve lasciare l’università e gli studenti che avevano manifestato in suo favore, al momento del commiato intonano My Way, lo stesso motivo che in occasione dei suoi 100 anni gli è stato cantato dagli allievi dell’accademia lirica di Verona.

A questo punto della sua esistenza, è prossimo ai 70 anni, decide di ritornare in Italia e sceglie di stabilirsi a Verona dove ancora può contare su antiche amicizie. Sempre mi ripeteva che per lui Verona è la città più bella del mondo. Alla città scaligera dona due monumenti: uno in ricordo del cappellano del carcere degli Scalzi don Giuseppe Chiot e l’altro, quasi di fronte, Cipresso, un obelisco in acciaio che ricorda i nomi dei partigiani che il 17 luglio 1944 liberarono Giovanni Roveda. Due di loro, Lorenzo Fava e Danilo Preto, morirono e altri due Emilio Moretto e Berto Zampieri rimasero feriti gravemente mentre Aldo Petacchi e Vittorio Ugolini continuarono la lotta fino alla Liberazione. La sua produzione artistica è stata copiosa in dipinti e sculture trovando un grande epilogo con la mostra organizzata a Verona nelle sale della Gran Guardia e con la pubblicazione del catalogo dal titolo Come stremata tu resisti, da un verso di Montale. Per molti anni Vittore non ha voluto ritornare in Germania e solo nel nuovo secolo ha rivisto i luoghi della sua sofferenza: Flossenbürg e Hersbruck. In quest’ultima località dove aveva patito atroci sofferenze gli vennero riconosciuti meriti per la sua opera di memoria.

A Hersbruck è stata costituita un’associazione che porta il suo nome e il comune gli ha commissionato la grande scultura Ohne namen (Senza nome) posta in un piccolo parco nel luogo dove sorgeva il lager di cui non è stata conservata alcuna memoria. Quando qualche anno fa venne imbrattata con vernice rossa dai soliti nostalgici, Bocchetta ci disse che avrebbe preferito non l’avessero pulita perché quel rosso avrebbe significato il sangue delle vittime. Anche il memoriale di Flossenbürg conserva i disegni di Vittore che ricordano i momenti della sua prigionia ed è stato prodotto un documentario di pregevole fattura sulle sue vicende nel lager.

Negli anni veronesi è sempre stato presente alle manifestazioni in ricordo della Battaglia delle Poste del 9 settembre 1943, del 25 aprile, del Giorno della memoria e del 17 luglio giorno dell’impresa degli Scalzi. Un calendario civile cui teneva molto perché solo così si sarebbero conservate le virtù repubblicane da trasmettere alle giovani generazioni. Era molto orgoglioso e felice di ricordare nelle scuole quanti avevano combattuto per la libertà. Vittore rispondeva con grande disponibilità alle domande dei ragazzi ed era una gioia anche per me vederlo mettersi alla pari dei giovani con gli occhi che gli brillavano. Non ricercava medaglie o attestati per quanto aveva fatto anche se avrebbero dovuto essere le istituzioni a riconoscerglili.

Solo due anni fa la sua biografa Giuliana Adamo si era spesa affinché il Presidente Sergio Mattarella gli facesse pervenire il diploma di Grande ufficiale Ordine al merito della Repubblica.

Pur nella sua ritrosia alle onorificenze aveva gradito questo gesto seppur tardivo. In sintonia con quella che era stata tutta la sua vita Vittore ha desiderato essere sepolto nel cimitero Monumentale di Verona nella nuda terra, non ha voluto essere cremato quasi per rispetto a quanti erano passati per i forni dei lager. Ha chiesto ai nipoti Manfredi e Alberto che non si tenesse alcuna celebrazione con labari o discorsi, coerente fino all’ultimo con il suo vissuto.

Vittore lascia un vuoto incolmabile nelle persone che l’hanno conosciuto e che gli sono state amiche. Mancherà la sua generosità, il suo carattere forte, la sua enorme cultura, la sua ironia franca e diretta.

Grazie Vittore di quanto ci hai donato.

Roberto Bonente

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