Il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato fu istituito dal regime fascista con la legge n. 2008 del 25 novembre 1926, “Provvedimenti per la difesa dello Stato” – una delle cosiddette leggi fascistissime – con lo scopo di reprimere meglio l’opposizione antifascista, in Italia e all’estero. Attraverso questo provvedimento fu reintrodotta la pena di morte e vennero creati una nuova serie di reati su cui fu competente, appunto, un nuovo organo giurisdizionale con composizione e procedura militare. Esso era infatti composto da:
- un presidente, scelto tra gli ufficiali generali del Regio Esercito, della Regia Marina, della Regia Aeronautica e della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale;
- cinque giudici, scelti tra gli ufficiali della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (un organo posto alle dirette dipendenze di Mussolini, di fatto il braccio armato del fascismo);
- un relatore, senza diritto di voto, scelto tra il personale della giustizia militare, che operava secondo le norme del Codice penale per l’esercito sulla procedura penale in tempo di guerra.
Le sentenze del Tribunale speciale non erano suscettibili di ricorso, né di alcun mezzo di impugnativa, salva la revisione.
In questo modo, il Tribunale Speciale dello Stato assumeva la caratteristica di un organo giurisdizionale di parte, di fatto il braccio giudiziario del regime.
Le modalità di funzionamento erano semplici: dopo la denuncia, il caso veniva affidato alla sezione istruttoria del Tribunale e si poteva concludere con il proscioglimento dell’imputato o con il rinvio a giudizio. L’istruttoria era segreta e, di fatto, si limitava ad a utilizzare e riproporre le prove raccolte dalla polizia giudiziaria e dall’Ovra. Durante tutto questo periodo, gli imputati non potevano avvalersi di un avvocato difensore e rimanevano in carcere, dove subivano interrogatori con bastonature e torture, in stato di isolamento, privi di comunicazioni con i familiari.
Il dibattimento si svolgeva in un’aula del Palazzo di Giustizia di Roma ed era ridotto a una formalità procedurale. Raramente un processo durava più di due o tre giorni e più spesso poteva concludersi in poche ore, anche perché le sentenze erano già prestabilite. La procedura era molto sbrigativa: dopo l’interrogatorio frettoloso degli imputati e dei testimoni d’accusa, si passava alle richieste del pubblico ministero e, quindi, alla sentenza; gli avvocati della difesa venivano spesso intimiditi, interrotti e minacciati.
Moltissimi antifascisti subirono i processi del Tribunale Speciale: da Gramsci a Pertini, da Terracini ad Adele Bei, da Spinelli a Di Vittorio etc.
Anche contro gli oppositori delle minoranze slave (“allogeni” come si diceva allora) il regime utilizzò il Tribunale Speciale, mostrando particolare severità: basti pensare che 26 delle 31 condanne a morte fatte eseguire dal Tribunale Speciale, furono irrogate a cittadini italiani di lingua slovena o croata.
Nel giugno 1929, la competenza del Tribunale Speciale venne estesa a Libia e Somalia.
Il Tribunale Speciale venne soppresso dal regio decreto-legge 29 luglio 1943, n. 668, adottato in seguito alla prima riunione del governo Badoglio. Il 3 dicembre 1943 nella Repubblica Sociale Italiana venne ricostituito un tribunale omonimo, che sarebbe rimasto operativo fino alla Liberazione.
Nel complesso, tra il 1927 e il 1943, il Tribunale Speciale emise 978 sentenze per reati politici a 5.619 imputati. Le condanne ammontano nell’insieme a 27.752 anni, 5 mesi e 19 giorni di reclusione, quelle a morte sono 42, di cui 31 eseguite.